LUGANO – Mercati, il punto di Michele De Michelis: se la Federal Reserve diventa interventista, c’è poco da stare allegri. Il commento di Michele De Michelis, responsabile investimenti di Frame Asset Management. Quest’anno, il mese di agosto non ha riservato particolari sorprese e anche settembre è iniziato nel migliore dei modi con i mercati azionari che continuano a segnare nuovi massimi, mentre il comparto obbligazionario mostra segnali di buona salute, con i rendimenti del T-Bond americano in calo e gli spread di credito tendenzialmente stabili. Una situazione che suggerisce un apparente periodo di tranquillità e assenza di scossoni significativi. In realtà, le notizie provenienti dall’economia reale e dalla geopolitica internazionale sono tutt’altro che banali o irrilevanti. Tuttavia, nessuna di queste sembra essere ancora in grado di scalfire quel clima di fondo positivo che continua a sostenere i mercati finanziari globali.
Mercati, il punto di Michele De Michelis
Prima della pausa agostana avevo scritto in questa sede: “Le previsioni per la seconda parte dell’anno indicano una possibile diminuzione della crescita americana e un’inflazione leggermente in salita, causata dall’aumento dei prezzi sui beni di consumo legati ai dazi. Ecco quindi che potrebbe rallentare anche il mercato del lavoro, con le aziende meno propense a fare investimenti in capitale (Capex) e i consumatori con meno disponibilità a spendere. Probabilmente, a quel punto, Powell sarebbe pronto ad agire, vista l’impostazione del doppio mandato della Fed (inflazione e occupazione).” Oggi possiamo dire che gli ultimi dati macroeconomici relativi all’economia americana confermano esattamente questa direzione. L’unico vero interrogativo, a questo punto, riguarda quanti tagli effettuerà la Federal Reserve da qui a fine anno. Gli operatori ne prevedono tre nei prossimi tre meeting ed è probabilmente proprio questa aspettativa a sostenere l’attuale rally dei mercati azionari, nonostante il ciclo economico stia mostrando segnali di rallentamento e le valutazioni non siano affatto a sconto.
Focus sui tassi USA
Interessante anche l’andamento dei tassi a lunga scadenza sul dollaro, con il decennale tornato in area 4% e il ventennale e trentennale poco sopra il 4,6%. Questo movimento è favorito dagli acquisti della FED sul mercato secondario, volti a concentrare l’esposizione del debito pubblico sulla parte più breve e più facilmente gestibile della curva. La Federal Reserve si conferma quindi molto attiva e consapevole del vero rischio attuale: l’eccessivo debito e deficit del governo americano, ma soprattutto la credibilità del dollaro come valuta di riserva mondiale. Non è infatti un segreto che diverse banche centrali di Paesi ostili agli Stati Uniti abbiano aumentato significativamente le loro riserve auree, vendendo titoli del Tesoro americano – nonostante questi offrano oggi un rendimento nettamente superiore all’oro, che di per sé non produce interessi.
Fine del paradigma post 1971?
Il paradigma nato nel 1971, quando gli Stati Uniti abbandonarono il gold standard e garantirono al dollaro lo status di valuta di riserva mondiale al posto dell’oro, sta iniziando a vacillare. Per la prima volta in oltre 50 anni, si intravede un’alternativa credibile: l’asse Russia-Cina, che sta sfidando apertamente l’egemonia americana, nonostante i continui atteggiamenti aggressivi dell’ex presidente Trump. Conclusione. Attenzione, non sto dicendo che ci sarà un cataclisma imminente (o almeno così spero!), ma è evidente che lo scenario globale sta cambiando. E queste dinamiche, pur silenziose, meritano di essere monitorate con grande attenzione.