MEDICINA – La terapia genica non è più una promessa futuristica, ma una concreta realtà che sta entrando stabilmente nell’arsenale terapeutico dei clinici, offrendo una speranza tangibile per la correzione degli errori nel DNA responsabili di gravi patologie. L’approvazione di nuovi trattamenti, come il farmaco contro l’atrofia muscolare spinale (SMA) citato, segna una vera e propria conquista scientifica dopo decenni di ricerca. Tuttavia, questo progresso porta con sé un problema di portata globale: il costo esorbitante di queste cure. I prezzi, che possono sfiorare o superare i due milioni di dollari per paziente, sono determinati sia dagli ingenti investimenti necessari per lo sviluppo di farmaci così innovativi e complessi, sia dal numero ristretto di pazienti affetti da malattie rare che ne possono beneficiare. Un esempio lampante è Zolgensma, il trattamento one-off di Novartis acquistato dopo l’acquisizione della società produttrice, il cui prezzo, pari a 2.15 milioni di dollari, lo rende uno dei farmaci più costosi al mondo. Sebbene per i genitori di bambini con malattie devastanti come la SMA il valore della vita sia inestimabile, il costo solleva interrogativi cruciali sulla sostenibilità a lungo termine.
Genica
L’arrivo sul mercato di farmaci come Zolgensma mette in crisi l’equità dei sistemi sanitari a carattere universalistico, come il nostro Servizio Sanitario Nazionale e molti altri in Europa. Il responsabile medico della Harvard Pilgrim Health Care, Michael Sherman, ha perfettamente riassunto il dilemma: “Non si tratta di dire di no, ma come si fa a dire sì senza mandare in bancarotta il sistema?“. La domanda diventa ancora più pressante considerando che le previsioni indicano l’arrivo di oltre 60 nuove terapie geniche sul mercato entro il 2024. Il paradosso si accentua se si considera l’Orphan Drug Act statunitense del 1983, concepito per incoraggiare la ricerca sulle malattie rare tramite agevolazioni fiscali e processi di immissione sul mercato accelerati. Tale normativa, secondo alcuni critici, avrebbe inavvertitamente reso più redditizio per le aziende farmaceutiche concentrare gli sforzi su patologie rare piuttosto che su condizioni più comuni, alimentando ulteriormente la spirale dei costi e sollevando questioni etiche sulle priorità della ricerca medica globale.














