LUGANO – Mercati, “game over dollar: il mondo guarda a est“. A cura di Alessio Garzone, Gamma Capital Markets. Il link al report completo. Chi l’avrebbe mai detto: i Treasury USA trattati come titoli spazzatura? Eppure è (quasi) quello che è successo. Mentre le borse ballavano al ritmo dei tweet di Trump, qualcosa di ancor più inquietante avveniva nel mercato obbligazionario. I capitali hanno iniziato a defluire dagli Stati Uniti, silenziosamente ma con decisione. Fondi internazionali e investitori istituzionali hanno ridotto l’esposizione, vendendo asset americani a mani basse. In una sola settimana di passione si stima che gli investitori esteri abbiano scaricato oltre 6 miliardi di dollari in azioni USA, preferendo portare i soldi altrove. I mercati ci hanno abituati a molte stranezze, ma questa è da collezione: azioni giù, obbligazioni giù, dollaro giù. Tre assi che affondano insieme. Altro che panic selling. I rendimenti del Treasury a 10 anni sono esplosi sopra il 4,4% in poche ore, un movimento da 30–40 punti base in un solo giorno. Se non vi dice nulla: non è normale, è un segnale d’allarme. In teoria, quando i mercati vanno in crisi si dovrebbe fare una cosa sola: comprare Treasury e dollari. È il riflesso condizionato di 40 anni di finanza globale. Da manuale. Paura? Compra America. E invece no. Il mondo ha fatto l’opposto: ha venduto tutto ciò che ha scritto “USA” sopra.
Ora, fermiamoci un attimo. Perché è successo questo? Per due motivi
Uno di fiducia, l’altro tecnico. Partiamo dal tecnico, che è quello che sta mandando davvero in tilt i mercati. Parliamo di una strategia chiamata basis trade. In teoria è un’operazione semplice: compri un Treasury cash e vendi il suo future. Due gambe opposte, che si compensano. Alla scadenza, la differenza tra i due prezzi – solitamente minuscola – ti garantisce un profitto. È noiosa? Sì. È a basso rischio? Solo se fatta con criterio. Ma si sa: agli hedge fund la noia piace solo se impacchettata con 20x di leva finanziaria. E così è stato. Il problema è che quando la volatilità esplode, i prezzi del future e del bond smettono di muoversi insieme. L’arbitraggio salta. E con lui, salta il castello di carta. Il basis trade si trasforma in una trappola. I fondi iniziano a perdere soldi in tempo reale, e i broker – giustamente allarmati – cominciano a chiamare: margin call. Tradotto: “versami altri soldi o ti chiudo la posizione”. Ma con perdite a valanga e nessuno che compra, non resta che una cosa da fare: vendere i Treasury. Subito. In massa. E questo non è un dettaglio tecnico da relegare a una nota a piè di pagina: nel 2020 il famoso dash for cash fu aggravato proprio da questi trade. E se torniamo ancora indietro, nel 1998 fu il basis trade a far saltare Long Term Capital Management, costringendo Wall Street a un salvataggio d’emergenza coordinato dalla Fed. La storia non si ripete, ma spesso fa rima.
Dov’è la Federal Reserve?
Se il mercato dei Treasury smette di funzionare, salta tutto. Perché i bond USA non sono solo debito pubblico: sono collaterale globale, benchmark di riferimento, ancora di salvezza per banche centrali e fondi pensione. Sono la colonna vertebrale della finanza moderna. Quando questa colonna vertebrale scricchiola, la paura non è più quella da “volatilità di mercato”. No. È il panico da collasso di sistema. Ed è per questo che in molti già invocano la Fed. Non per un taglio tassi, ma per fare quello che ha già fatto nel 2020: entrare a gamba tesa e comprare tutto. Salvare gli hedge fund travolti, ricompattare il mercato, evitare l’implosione. Powell però tentenna. Perché diciamocelo: nessuno ha voglia di passare per quello che salva i casini della finanza con i soldi di tutti. Ma la pressione sale. E più passa il tempo, più il rischio aumenta. Alcuni analisti temono addirittura un “momento Liz Truss” per gli Stati Uniti, ovvero una crisi di fiducia simile a quella che travolse il Regno Unito nel 2022 quando i mercati dissero “no grazie” al piano fiscale della premier britannica. La differenza è che stavolta non c’è bisogno di un piano scriteriato. Basta Trump con una tastiera e 280 caratteri.
Addio fiducia? Bye bye “Made in Usa”
Sarà paranoia, ma viene il dubbio che qualcuno a Washington voglia un dollaro più debole. Come recita il proverbio: “se devi alla banca cento sterline, hai un problema. Ma se gliene devi un milione, il problema è della banca”. E l’America di miliardi ne deve decine di migliaia. Un dollaro più leggero farebbe comodo per ridurre il valore reale di quel debito monumentale, oltre che per riequilibrare la bilancia commerciale. Donald Trump, dal canto suo, non ha mai nascosto di preferire un biglietto verde svalutato: lo ha ripetuto in campagna elettorale che vuole riportare industria e manifattura in patria, costi quel che costi, anche depreciando il cambio. E magari, perché no, stampando un po’ di moneta all’occorrenza. Risultato: la fiducia globale nel dollaro sta sprofondando. Gli asset denominati in USD iniziano a puzzare di bruciato per investitori, grandi e piccoli. Il segnale più evidente? La corsa all’oro. Quando l’autorità di una valuta viene messa in discussione, storicamente i capitali si rifugiano nel metallo giallo. E infatti il prezzo dell’oro ha toccato nuovi massimi storici nel 2025, superando i picchi precedenti. Pensate: solo nel 2024 l’oro è salito del +27%, uno dei rialzi annui più forti degli ultimi decenni. E non è stata solo speculazione: dietro c’è la mano pesante delle banche centrali. Dal 2020 ad oggi le banche centrali globali hanno accumulato oltre 3.000 tonnellate di oro. Solo lo scorso anno hanno comprato più di 1.000 tonnellate nette per il terzo anno di fila.
Chi sono i grandi compratori?
In cima alla lista troviamo la Cina, ovviamente: la PBOC (banca centrale cinese) ha aumentato le proprie riserve auree per il quarto mese consecutivo fino a febbraio 2025, portandole a 73,6 milioni di once (circa 2.290 tonnellate). Pechino ha investito miliardi per accumulare lingotti, riducendo contestualmente i Titoli di Stato USA in portafoglio ai minimi degli ultimi 15 anni. Ma non c’è solo la Cina: anche paesi insospettabili, come la Polonia o la Turchia, segno che il timore di un dollaro debole è globale e trasversale. Perché tutto questo? Cosa c’entra l’oro con il dollaro? L’oro è l’anti-dollaro per eccellenza, immune alle pazzie della politica americana. Se le banche centrali preferiscono l’oro ai Treasury, significa che non si fidano più degli Stati Uniti. È un voto di sfiducia clamoroso. Del resto, come biasimarle? Negli ultimi anni Washington ha spesso usato il dollaro come arma geopolitica – pensiamo al congelamento delle riserve russe nel 2022 – dimostrando al mondo che detenere troppi asset in dollari può essere pericoloso. Paesi come la Cina osservano e imparano: se domani toccasse a loro subire sanzioni o pressioni, meglio aver già convertito una buona fetta di dollari in oro o altre valute. La de-dollarizzazione è iniziata, anche se in maniera graduale e silenziosa. Un aspetto chiave è proprio la riduzione dell’esposizione ai Treasury USA da parte della Cina e di altri grandi creditori. La Cina un tempo deteneva oltre 1.300 miliardi di dollari in bond americani; ora siamo ben sotto gli 800 miliardi e ogni mese che passa quel numero scende ancora. Pechino sta vendendo o lasciando scadere i titoli in portafoglio, reinvestendo altrove (oro, progetti infrastrutturali interni, materie prime strategiche). Anche il Giappone – storicamente il primo detentore di debito USA – ha ridotto un po’ le sue posizioni, sebbene più lentamente. I giapponesi finora vedevano il segno negativo sui loro bond decennali, ora che i tassi sono aumentati, preferiscono evitare il rischio cambio e investire in casa.
In generale l’Asia non alimenta più il deficit americano come una volta
E questo è un problema colossale per gli Stati Uniti: meno acquirenti esteri significa dover trovare compratori interni per finanziare il debito, oppure far intervenire la Fed stampando moneta (con il rischio di alimentare ulteriore inflazione e svalutare ancora il dollaro). Un circolo vizioso. C’è infine una dimensione squisitamente geopolitica nella fuga dagli asset in dollari. Se la Cina non finanzia più l’America, l’America ha meno leve di pressione sulla Cina. Per decenni si è detto che Pechino non avrebbe mai “fatto male” a Washington perché sarebbe stato come spararsi sui piedi, avendo in pancia tonnellate di Treasuries. Ma ora quel legame si sta sciogliendo. Immaginiamo per assurdo che domani scoppi una crisi Taiwan o un incidente militare: una Cina con poche centinaia di miliardi (anziché migliaia) di dollari in riserve è molto meno esposta a rappresaglie finanziarie. Allo stesso modo, vendere in massa quei titoli per punire gli USA diventa un’opzione più praticabile se il costo per la Cina è limitato. Insomma, il “ricatto” del dollaro non funziona più come un tempo. E non è un caso che molti paesi emergenti stiano studiando sistemi di pagamento alternativi: accordi bilaterali in valute locali, meccanismi tipo swap tra banche centrali, e perfino discussioni su una valuta dei BRICS. Fino a pochi anni fa erano idee da fantafinanza; oggi iniziano a prendere forma concreta. La fiducia nel dollaro come bene rifugio e pilastro indiscusso sta diminuendo. E mentre l’Occidente sembra ignorare la portata di questo cambiamento, il resto del mondo – piano piano – si attrezza per un futuro multipolare delle riserve.
La svolta a Est: Pechino tesse la sua tela geopolitica
Mentre in America si litiga su dazi e debito, dall’altra parte del mondo c’è chi brinda. Pechino osserva il caos di Washington quasi con compiacimento, ma senza stare con le mani in mano. Anzi, la Cina sta giocando la sua partita globale con astuzia e tempismo. Il vuoto di credibilità lasciato dagli USA è un’occasione d’oro per Xi Jinping, che si è subito mosso per presentare la Cina come nuovo partner stabile e affidabile. Non stiamo parlando della solita propaganda, ma di fatti concreti: accordi, incontri diplomatici, strategie economiche di lungo termine. In poche settimane abbiamo visto più iniziative dalla Cina che in anni interi. È come se il mondo stesse davvero iniziando a guardare a Est in cerca di qualcosa a cui aggrapparsi. Prendiamo l’Asia orientale: fino a ieri Giappone e Corea del Sud non andavano esattamente a braccetto con Pechino, complice la storica alleanza con gli USA. Ebbene, lo spettro dei dazi di Trump li ha convinti a dialogare come non accadeva da 5 anni. A fine marzo, Tokyo, Seul e Pechino si sono seduti allo stesso tavolo per rilanciare un accordo commerciale trilaterale rimasto in sospeso dal 2012. Hanno parlato di abbattere barriere e facilitare il commercio regionale. In sostanza, Giappone, Corea e Cina stanno facendo fronte comune per difendere la libera circolazione delle merci nella regione, perché sanno che l’alternativa è subire passivamente le scelte di Washington.
Il paradosso?
Proprio Trump, con la sua aggressività sui dazi, sta ottenendo l’effetto di avvicinare tra loro paesi che erano divisi. Quando gli interessi sono in gioco, le vecchie rivalità passano in secondo piano: a nessuno conviene una guerra commerciale generalizzata. E la Cina si potrebbe candidare come leader del fronte anti-protezionista (chi l’avrebbe mai detto?). Guardiamo all’Europa. L’Unione Europea per ora sonnecchia, impacciata tra atlantismo e propri interessi economici, ma alcuni segnali indicano che anche qui qualcosa si muove. Mentre Trump alzava tariffe su tutti – inclusi gli alleati storici – Xi Jinping lanciava messaggi diplomatici all’Europa. Proprio venerdì 11 aprile, Xi ha esortato pubblicamente l’UE a “unire le forze con la Cina contro il bullismo unilaterale” sulle regole commerciali e geopolitiche. Parole pesanti, che suonano come un invito: “Europa, scegli da che parte stare: col caos americano o con l’ordine che ti offre Pechino”. E infatti negli ultimi mesi non sono mancati contatti di alto livello: visite di leader europei a Pechino in cerca di sponde (si vocifera di un viaggio della cancelleria tedesca e del presidente francese per discutere di investimenti e magari di pace), accordi industriali e tecnologici (si pensi alla cooperazione sulla transizione energetica), fino alle dichiarazioni distensive della diplomazia cinese verso il Vecchio Continente. Certo, l’Europa resta formalmente allineata a Washington, e di certo due regioni produttrici come Europa e Cina è difficile che vadano d’accordo, ma la tentazione di una “via d’uscita” cresce man mano che gli Stati Uniti diventano più imprevedibili. Dopo tutto, il mercato cinese è vitale per le imprese europee, e la stabilità delle forniture cinesi (dalle terre rare ai componenti elettronici) non ha sostituti a breve termine. Bruxelles può davvero permettersi di seguire ciecamente l’America in una crociata anti-cinese, mentre la propria economia arranca? Domanda ovviamente retorica.
La strategia multilaterale di Pechino si estende ben oltre gli accordi commerciali
La Cina si sta proponendo come mediatore e attore di pace in vari teatri dove gli USA hanno perso smalto. Un esempio eclatante è stato il clamoroso riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita mediato proprio da Pechino nel 2023 – un colpo diplomatico che ha sorpreso il mondo. Ora Xi Jinping strizza l’occhio anche al conflitto Russia-Ucraina, lanciando (già da tempo) una sua proposta di pace e offrendosi come facilitatore di colloqui. Finora la proposta cinese è stata accolta con scetticismo in Occidente – comprensibilmente, data la vicinanza di Pechino a Mosca – ma il solo fatto che sia la Cina a parlare di pace mentre l’America continua a spedire armi cambia la percezione globale. Nelle capitali del Sud del mondo, sempre meno allineate, molti iniziano a vedere la Cina come un potenziale arbitro più neutrale rispetto agli Stati Uniti. Fantapolitica? Forse. Di certo c’è che la Cina sta colmando ogni vuoto: se Washington arretra su un tavolo, Pechino avanza con un’offerta (che sia commerciale, diplomatica o strategica poco importa). Emblematico anche il fronte tecnologico e industriale. L’America cerca di contenere la Cina (pensiamo al blocco sui semiconduttori avanzati), ma intanto le aziende cinesi conquistano fette di mercato globali in settori chiave. Uno su tutti: l’auto elettrica. La Cina è ormai il primo esportatore mondiale di automobili e veicoli elettrici, avendo superato persino il Giappone. Nel 2024 ha esportato quasi 5 milioni di veicoli, di cui oltre 1,2 milioni elettrici o ibridi, raggiungendo luoghi un tempo impensabili. Dall’Asia al Medio Oriente, fino all’Europa dell’Est e all’Africa, le auto cinesi (spesso EV a basso costo) stanno invadendo le strade.
L’Europa
L’Europa occidentale stessa, pur diffidente, è il secondo mercato per i veicoli elettrici “made in China”. Bruxelles ha provato a correre ai ripari imponendo dazi antidumping sui veicoli elettrici cinesi nell’ultimo trimestre 2024, ma i cinesi aggirano l’ostacolo aprendo fabbriche in Europa (BYD in Ungheria, per dirne una. In altre parole, la Cina sta diventando indispensabile anche come fornitore di beni ad alta tecnologia e valore aggiunto, non solo di materie prime o manufatti a basso costo. Questo consolida la sua posizione di partner commerciale imprescindibile per molti. E rende più difficile isolare. Pechino senza subirne contraccolpi economici. Tutto questo accade mentre gli Stati Uniti sembrano ripiegati su sé stessi, concentrati a “punire” amici e nemici con tariffe a doppia cifra. La differenza di approccio è lampante: da un lato Trump alza muri (dazi, visti, sanzioni), dall’altro Xi costruisce ponti (accordi, investimenti, cooperazione). Certo, non facciamoci illusioni: la Cina persegue il proprio interesse nazionale con fermezza, non è diventata improvvisamente benefattrice globale. Ne sono personalmente e fortemente convinto. Ma il punto è che in questo momento riesce a presentare i suoi interessi come se fossero interessi comuni a tanti altri paesi, creando coalizioni di sostegno: gli Stati Uniti rischiano di perdere il consenso internazionale che avevano costruito in 80 anni di leadership, mentre la Cina riempie quel vuoto proponendosi come pilastro di un “nuovo ordine” multipolare.
In conclusione, il quadro è chiarissimo e al tempo stesso inquietante. Da un lato un’America in balìa di politiche imprevedibili e lotte intestine, con un dollaro che vacilla e mercati che non la ritengono più infallibile. Dall’altro una Cina che si candida – con tutti i suoi limiti – a garante di stabilità economica e forse anche geopolitica. Game Over Dollaro? Ancora no, ma la partita è aperta come non mai. E questa volta il mondo guarda (e va) a Est.